Meravigliosa creatura

Racconto di un amore di qualche tempo fa

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A Claudio Lo Re era capitato molto raramente, nei suoi circa trentadue anni di vita, di poter esclamare: «Non è possibile! Non credo ai miei occhi!» E questo, per due motivi. Primo, aveva in odio le frasi fatte. Secondo, nella sua vita non gli era capitato quasi mai niente di così straordinario da meritare una simile esclamazione in versione entusiastica.

A venticinque anni aveva vinto il concorso a cattedra e da quasi sette anni insegnava nella scuola media del suo paese. Qualche relazioncella scipita con colleghe tutte più anziane di lui. Mai un autentico innamoramento, una passione travolgente, un amore tipo “tu sei l’unica al mondo” e “non ci lasceremo più, mai più”. Per una dichiarazione così, Claudio avrebbe voluto una del genere Edwige Fenech. Ma si sarebbe accontentato anche della Claudia Cardinale de “Il giorno della civetta” o di Catherine Deneuve de “La cagna”. Altroché se si sarebbe accontentato!

Col carattere di Lucia, però.

Con la dolcezza della voce suadente e vellutata che da due mesi lo affascinava durante la “chat” quasi quotidiana al pc, nonostante le inevitabili distorsioni foniche di un apparato di non ultima generazione. Con i gusti di lei, la passione per la musica classica e la lettura, che spesso erano stati i temi delle loro conversazioni attraverso il computer. La sua determinazione, pur pacata, nel difendere le proprie tesi quando queste divergevano leggermente da quelle di Claudio, il suo modo di manifestare arrendevolezza quando il caso e una fine avvedutezza glielo suggerivano e tutto ciò che Claudio aveva capito del carattere di Lucia, gli avevano fatto concludere che era una donna di classe. Fosse stata anche bella… magari come Edwige Fenech! Insomma non proprio brutta, almeno. Finezza di spirito ne aveva, e mente sveglia, intelligente. Si esprimeva con notevole proprietà di linguaggio e profondità concettuale. Dimmi come parli e ti dirò chi sei. E questa, più che una frase fatta, è un proverbio. Saggezza dei popoli. Sicuramente una buona dose di bellezza interiore doveva albergare in Lucia, e quella fa apparire bella anche una persona che proprio tale non è, si diceva Claudio. La bellezza dello spirito spesso sopperisce largamente alle carenze estetiche di una donna. Oh Dio, se poi ad una bellezza interiore facesse riscontro anche una bella presenza, formosa e sensuale, allora saremmo all’ideale platonico, non so se mi spiego.

Ma quando la vide, seduta al tavolino del bar “La tazzina”, dove s’erano dati appuntamento per via telematica, con le gambe accavallate -e che gambe!- una maglietta attillata che le modellava un seno moderatamente prosperoso e il busto, tutto da urlo, e per giunta bionda, non poté fare a meno, ahimè, di esclamare tra sé:

“Non è possibile! Non credo ai miei occhi!”

Aveva desiderato che fosse bella… ma non avrebbe mai immaginato fino a quel punto! Il “Corriere della Sera” c’era sul piano del tavolino, come si era convenuto. E un nastro viola a cingere la base della coda di cavallo? C’era anche quello. E il foularino rosso annodato su un lato del collo? C’era tutto. Era lei. Si guardava intorno, per l’appunto come aspettasse qualcuno. Oh, bella! Aspettava lui! Ed era giunta sul luogo dell’appuntamento anche con un certo anticipo. In anticipo sull’anticipo con cui lui stesso era arrivato. Questo voleva pur dire che non vedeva l’ora di incontrarlo, come lui d’incontrarla, o no?

Dio mio. l’ho trovata, finalmente!

Che faccio? Mi catapulto? Sarò all’altezza?

In fondo, è da due mesi che quasi ogni giorno ci siamo incontrati in chat. Alla mia proposta, peraltro alquanto titubante, di vederci da qualche parte per conoscerci di persona, non ha esitato un attimo a dire sì. È stata lei perfino a fissare il luogo e l’ora. Tutto d’un fiato. Come se avesse già da tempo architettato il modo di incontrarsi, quando finalmente Claudio si fosse deciso ad avanzare quella richiesta. Certo, l’iniziativa non poteva partire da lei: sarebbe stato sconveniente. Evidentemente non aspettava altro.

«Alle sei del pomeriggio di dopodomani, al bar “La tazzina” in via Roma. Avrò in mano un giornale, il “Corriere della Sera”. Avrò la coda di cavallo legata da un nastro viola e pure un foularino rosso al collo.» Alla fine aveva concluso: «Mi raccomando, sii puntuale.»

«Sarò puntualissimo.»

«E tu? Come farò a riconoscerti?»

«Io avrò in mano un pacchettino, legato da un nastro rosa. Un regalino per te, un libro… ah, e anche un disco. Sarò seduto ad uno dei tavolini esterni.»

Tutto ciò vorrà pur dire qualcosa, o no?

Le aveva parlato a lungo del romanzo di Gesualdo Bufalino “Le menzogne della notte”, in una delle prime chat.

«Non lo conosco. Non l’ho letto», aveva risposto Lucia.

Allora non volle approfittare per chiederle un incontro con la scusa di prestarle quel libro. Troppo presto.

«Beata te.»

«Perchè?»

«Invidio te che puoi provare ancora il piacere di un simile incontro. È talmente bello che vorrei non averlo letto per leggerlo.»

«Beh. Puoi sempre rileggerlo.»

«Non è la stessa cosa.»

Qualche settimana dopo, sempre chattando, le aveva parlato della “Sinfonia classica” di Sergej Prokofiev.

«Sai, fu accusato da alcuni suoi detrattori di non essere in grado di scrivere una musica all’altezza di un Haydn o di un Mozart. Lui accettò la sfida e scrisse questa sinfonia. È un vero gioiello. Classica e moderna al tempo stesso.»

«Davvero? Sono ansiosa di ascoltarla.»

«Qualche volta la ascolteremo insieme», azzardò Claudio.

Una breve pausa. Dopo poco riprese, cambiando discorso. A Claudio sembrò di avvertire una vena di delusione nella voce? Si aspettava che le dicessi… cosa? che la invitassi a casa mia per ascoltare la sinfonia? O che mi invitassi a casa sua portando il cd? Forse sì. Non mi sembrò opportuno. Non ebbi il coraggio. Allora Claudio le aveva comprato libro e cd e se li rigirava fra le mani, intento a scegliere il tipo di camminata da adottare per avvicinarsi al tavolino e le prime parole che le avrebbe detto. Passo deciso, ma pacato, per niente frettoloso. Tra le tante frasi brillanti che gli vennero in mente, non sapeva quale scegliere. Alla fine, avvicinandosi con qualche inciampo, maledetta pavimentazione stradale sconnessa:

«Lucia?», riuscì a dire. «Lucia Maresca?»

Lei girò la testa verso di lui. Stava guardando da tutt’altra parte. Un visetto alla Meg Ryan. Anche se aveva detto chattando di avere ventinove anni, ne dimostrava parecchi di meno. Guardò Claudio con un sorrisetto artefatto. Lui ebbe l’impressione di non aver fatto immediatamente colpo su di lei. Se mai fosse nato l’amore fra loro due, da parte di lei, non si sarebbe sicuramente potuto parlare di colpo di fulmine .

«Claudio Lo Re, immagino.»

«Sì. Sono io. Sai, sono venuto con un po’ di anticipo… ma vedo che anche tu… Per il traffico… avevo paura di non giungere in orario… Ti ho portato il libro. Ricordi? “Le menzogne della notte” e anche il disco… la classica di Prokofiev.»

Quegli occhi verdi, anch’essi sorridenti, gli mozzavano il respiro. Tacque un momento per riprendere il controllo delle proprie emozioni. La donna lo guardava come se, consapevole delle sensazioni che sapeva suscitare, avesse compreso il marasma in cui Claudio si trovava. Era nell’atteggiamento di una ragazza saggia, che concede all’uomo il tempo di assumere il contegno e la padronanza che gli compete nel non facile compito di gestire iniziative quando è intento a fare colpo su una donna.

«Lucia, scusami. Io non sono molto bravo… in genere non sono un timido, ma ora… Non mi aspettavo che tu… sì, insomma, ti avevo immaginata del tutto diversa. Tu sei davvero una bellissima ragazza.»

Ella accennò un sorriso per ringraziare. Claudio si sedette di fronte a lei. Andava riacquistando un po’ di ordine interiore.

«Per dirla tutta, tu sei un vero schianto. Non sembri il tipo che si mette a chattare… almeno io non pensavo che una ragazza come te si mettesse a parlare ad un microfono con un tizio, aspettando, come ho, in certi momenti… mi è parso di capire, che quello si decidesse una buona volta a darle un appuntamento. Tu mi sembri più il tipo di donna che… come dire, gli uomini… a vagonate… sei costretta a tenerli a bada ad ogni passo. Ora capisci perché… la mia sorpresa.. il mio imbarazzo. Non sono così imbranato, di solito. Ma… Lucia, io ti assicuro che normalmente… te ne sarai resa conto chattando… sono un tipo… beh, insomma, abbastanza brillante e…»

«Non lo metto in dubbio. Ma, sai…? Mi dispiace… Devo dirti…» Titubava.

«Cosa…?»

«Io non sono Lucia.»

E, a questo punto la maschera che calò sul volto di Claudio Lo Re non può essere definita in altro modo se non come quella di un ebete.

«Ah! Non sei Lucia? Scusami… E chi sei?»

Ci mise un po’ a rispondere.

«Sono una sua amica.»

«Ah. E perché?»

«Perchè sono una sua amica?»

«No… perché non sei Lucia? Cioè… voglio dire, perché non è venuta Lucia?»

La non Lucia si fece seria in volto e assunse un’aria un po’ afflitta.

«Vedi, Lucia non è potuta venire. Ha avuto un incidente.»

«Un incidente? Ma se ieri mattina ho chattato con lei e stava benissimo!»

«Ieri mattina, trentasei ore fa. In trentasei ore, nel mondo capitano migliaia di incidenti. Ne è capitato uno anche a Lucia. Allora lei mi ha chiesto il favore di venirti ad avvisare che, ovviamente, non sarebbe potuta venire all’appuntamento. Non potevo rifiutare e sono venuta.»

Claudio continuava a guardarla come se lei gli avesse dato ventuno coltellate, a lui che, poverino, neanche la toga senatoria aveva in cui poter nascondere il capo.

«E.. il foularino rosso, il nastro viola, il giornale? Tutta roba sua?»

«Sì, tutta roba sua…di Lucia… cioè il giornale no. L’ho comprato all’edicola qui vicino poco fa.»

Non esageriamo. Una doccia fredda. Ti crolla il mondo addosso. Franano tutti i castelli in aria. E via queste frasi fatte!

Dopo tutto Lucia sicuramente non poteva essere bella come questa donna che gli stava di fronte. Questa è il modello sul quale il Demiurgo plasma tutte le altre donne.

E se tentassi con lei..? Questa mi ha già stregato. Dovrei riconquistare un bel po’ di punti persi. Si avvicinò al tavolino un cameriere.

«Prendi… Posso offrirti qualcosa?»

«No, grazie. Ho finito poco fa un cognac. Non desidero altro. Grazie.»

Claudio ordinò un’aranci… no, un whisky, per essere all’altezza.

Come iniziare l’azione..?

«Beh, io andrei, se…». La ragazza fece per alzarsi.

Non lasciarla andare, altrimenti non la vedi più.

«Ma, che incidente..? È grave?»

«Grave..? beh, no… cioè sì, un poco. È stata… investita da una macchina.»

«Oh, mi dispiace. E dov’è? All’ospedale?»

«All’ospedale, sì.»

«All’ospedale qui, in paese?»

«No… a Napoli. Ma per favore non chiedermi dove.»

«Ma mi corre l’obbligo di andarla a fare visita.»

Oh Dio! Mi corre l’obbligo! Ma che dice? Non era quello che odiava le frasi fatte? Questa, poi, tra le frasi fatte è veramente la più becera.

«E tu fermalo!»

«Che cosa?»

«L’obbligo, no? Non farlo correre.»

E certo! Si vede subito che è una ragazza sveglia e spiritosa. Volevi che non ti prendesse in giro? Claudio si morse le labbra. Un’altra manciata di punti persi.

«Dai, non scherzare. Poverina. Vuoi che non le vada neanche a fare una visita?»

«No… vedi, il fatto è… appunto, che mi ha pregato di dirti che non vuole… sai, ha il volto un po’ tumefatto e non vuol farsi vedere da estranei. Specialmente da te poi… Figurati… così brutta.»

«Ah. Così… Beh, non ha torto. Ma se tu le vai a fare visita, le puoi portare questo libro e questo disco, per favore?»

«Va bene. Dunque, allora ci..»

«No, aspetta un attimo. Almeno mi dici come ti chiami?»

«Chi, io? ah, sì… mi chiamo Esmeralda.»

«Che bel nome!»

«Nevvero?»

Esmeralda, e poi?»

«Esmeralda Russo.»

Claudio decise di spingersi più a fondo.

«E mi daresti gentilmente anche il tuo numero di telefono? Così posso chiederti notizie di Lucia.»

«No, guarda lei mi ha pregato di dirti… sì, che si farà viva lei per chat, non appena tornerà a casa. Non ti preoccupare, non resterà molto in ospedale. La trattengono un po’ di giorni sotto osservazione. Ma presto tornerà a casa. Va bene? Adesso vado. Ho fatto già tardi.»

La stiamo perdendo!

«Ti accompagno? Ho la macchina posteggiata poco lontano.»

«Ti ringrazio, ma anch’io sto con la macchina.»

«Senti…»

«Guarda. Adesso devo proprio andare. C’è il mio fidanzato che mi aspetta e sono già in ritardo. Paghi tu qui, naturalmente, no? Ciao, eh. Stammi bene.»

«Ciao e… grazie.»

Perduta.

Ha il fidanzato. Certo. Volevi che non ce l’avesse una bella come lei? Beato lui. Rimase a guardarla mentre andava. Come se ne va bene. Che vitino da vespa! Evviva le frasi fatte! E che movimento d’anche,

Adieu, mon amour.

Nei giorni che seguirono, più che attendere che Lucia si facesse viva sulla chat, sperava di rincontrare Esmeralda da qualche parte. Esmeralda Russo. Anche solo per vederla. Era un tale spettacolo. E chi se la può più scordare!

Lucia, accidenti a te! Più di quello che ti è capitato. Ti fossi fatta trovare tu al bar “La tazzina”, almeno non m’avresti creato questo poco di marasma dentro, brutta come sicuramente dovrai essere. A paragone di Esmeralda certamente… Ma non è che non sei venuta proprio perché sei talmente brutta che, all’ultimo momento hai pensato di non farti vedere e mi hai mandato Esmeralda? E non mi potevi mandare tuo fratello, o anche una tua sorella più brutta di te? Almeno non farei sogni agitati, e non sognerei ogni notte Esmeralda. E la sogno pure abbracciata al suo fidanzato.

Passata un decina di giorni, Claudio tentò di connettersi in chat con Lucia. Il suo computer risultava spento. Fosse ancora in ospedale? Riprovò qualche giorno dopo. Sempre spento. Almeno potessi connettermi con lei, per chiederle se mi dà il numero di telefono di Esmeralda. Poco corretto, in questo caso. Ma quel numero di telefono valeva bene una scorrettezza, e anche due. Cercò sull’elenco telefonico con la vana speranza che fosse intestato proprio a lei. C’erano tremila Russo e nessuna che si chiamasse Esmeralda.

Ah, Esmeralda, Esmeralda! Per te mi accontenterei anche di essere il gobbo di Notre-Dame!

La vedeva in ogni dove. Qualunque capigliatura bionda, vista di dietro, gli faceva balzare il cuore in gola. Le correva davanti per assicurarsi che non fosse lei. Già guardandola di dietro avrebbe potuto essere certo che non era Esmeralda. Quelli non erano i suoi fianchi e, quand’anche la bionda di turno avesse un bel sedere, non era quello di lei. Ma voleva guardarla in viso per essere sicuro al cento per cento. Sistematicamente restava deluso. Il paese non era una metropoli e, a meno che quella del bar “La tazzina” non fosse stata un’apparizione fantasmatica, prima o poi gli doveva capitare di rincontrarla.

Era ormai da più settimane che aveva smesso di fare tentativi per contattare Lucia in chat. Aveva detto che sarebbe stata lei a contattarlo? E allora… Non aveva neppure tutto questo forte desiderio di sentirla, Lucia. Ora voleva rivedere Esmeralda, questo era il più ardente desiderio che lo animava. Rivederla, ottenere almeno la sua amicizia. Se la sarebbe conquistata col suo saper essere spiritoso, brillante, spigliato nella conversazione. Sapeva essere tale. Non aveva, del resto, conquistato così Lucia, con la sua parlantina, le sue idee originali, la freschezza del suo fraseggio, la profondità e l’originalità dei suoi pensieri?

Come recriminava di non aver potuto dimostrare tutto ciò ad Esmeralda nell’incontro al bar “La tazzina”!

Accidenti a me, che mi sono fatto fregare dall’emozione! Ma chi poteva immaginare… tutte quelle sorprese! Ho perso il controllo della situazione. Mai capitato prima.

Aveva sempre saputo fronteggiare nel modo migliore anche le situazioni più impreviste. A scuola con gli allievi, nelle assemblee del Collegio docente, nelle riunioni con i genitori, in ogni occasione aveva dimostrato sicurezza e padronanza di sè, prontezza di spirito, loquela scorrevole, brillantezza di soluzioni. Molti lo ammiravano per queste sue doti. Ma davanti ad Esmeralda… tutto s’era sciolto come nebbia al sole. Poterla rivedere. Si sarebbe, ne era certo, guadagnato la sua amicizia, come inizio, e poi… Ma è fidanzata.E cosa vuol dire? Ma perché i fidanzati non si possono lasciare? Si abbandonano perfino i mariti.

Ora che le scuole erano chiuse per le vacanze estive, Claudio impiegava la maggior parte della giornata girando per il paese. Entrava nell’ufficio postale. E che, forse Esmeralda non può spedire un vaglia, qualche volta; pagare alla posta la bolletta del telefono? Entrava nella banca, negli uffici del municipio, nei negozi e in ogni altro luogo in cui gli pareva di intravedere una chioma bionda. Ma quando mai ci sono state tante bionde in questo paese? Nessuna era Esmeralda. Nessuna era come lei, neppure alla lontana.

La canzone Meravigliosa creatura di Gianna Nannini era sempre in funzione quando era a casa.

Molti mari e fiumi
Attraverserò
Dentro la tua terra
Mi ritroverai
Turbini e tempeste
Io cavalcherò
Volerò tra i fulmini
Per averti

Meravigliosa creatura

Trascorse l’estate.

Da una settimana era iniziato il nuovo anno scolastico. Era stata un’estate insulsa. Neppure in vacanza al mare, che pure tanto amava, aveva avuto voglia di andare. Esmeralda gli aveva avvelenato l’esistenza. E neppure si decideva ad allentare il peso della sua presenza nella mente e nel cuore di Claudio. Non voleva più nessuna donna che non fosse lei.

Nell’aula a piano terra i suoi allievi di seconda classe erano impegnati nello svolgimento del compito sulle vacanze appena trascorse. E quando mai gli allievi, dalle elementari alle medie, sogneranno di potersi sottrarre alla tortura del compito sulle vacanze appena trascorse? Non solo le vacanze sono trascorse, e questo già… che tristezza! In più è cominciata la scuola, un’altra inevitabile disgrazia… e ti costringono anche a ricordare i momenti più belli appena trascorsi! Questa è crudeltà mentale. Non c’è cosa più triste che ricordare i bei tempi nei momenti del dolore, pensava Claudio mentre si avvicinava alla finestra che dava sul cortile. Chi l’aveva detto? Dante? Sarà l’ultima volta che assegno questo compito ad inizio anno.

Guardò verso la palazzina dove erano ubicati gli uffici di segreteria giusto in tempo per vedere uscire, dalla segreteria, una bionda… quelle movenze… il suo modo di camminare, si era girata come a guardare… Era lei! Esmeralda. Non c’è dubbio. E che ci fa nella segreteria della mia scuola? Uscita dal cancello dell’edificio con una certa fretta, si era infilata in un’auto, una Mini Cooper. La donna al volante accese il motore e partì.

L’anziana insegnante di sostegno, che seguiva una ragazzina down nel famigerato compito sulle vacanze, dovette credere che improvvisamente il prof di lettere avesse avuto sicuri segni premonitori di un incombente terremoto del settimo grado Richter, e stava per rifugiarsi sotto al banco, come prescrivevano le norme della Protezione Civile in caso di sisma.

«Scusami un attimo. Torno subito», disse Claudio alla collega di sostegno e volò via. Urtò lo spigolo della cattedra. Non avvertì neppure il dolore boia che, in altre situazioni, lo avrebbe fatto torcere, infilò la porta dell’aula e in un baleno fu fuori del cancello della scuola, giusto in tempo per vedere la Mini allontanarsi e scomparire dietro l’angolo lontano. Tornò nel cortile e si diresse veloce negli uffici di segreteria. Si rivolse a Raimondo, l’applicato factotum, ansimando, e non tanto per la breve corsa.

«Quella donna che è uscita da qui poco fa…»

«Quel pezzo di figliola? Quella bionda? Professo’, teneva certi occhi verdi comme ‘a Grotta Azzurra.»

«Sì, lei…»

«È una supplente. Ha chiesto in che punto della graduatoria si trovava. Le ho detto che, al punto in cui si trovava, c’erano poche speranze di lavorare per quest’anno. Ha detto che stava per partire per Domodossola. Là, col suo punteggio, avrebbe sicuramente lavorato per tutto l’anno. Ha detto di depennarla dall’elenco e di fare conto che non è mai esistita. Io le avrei dato la supplenza non per tutto l’anno, ma per tutta la vita.»

Per Domodossola… sarebbe partita … e quando?

«Ma da quanto tempo è che sta nella graduatoria supplenti del nostro istituto?»

«Ma che ne so! Forse dall’anno scorso, due anni. Non so. È stata la prima volta che l’ho vista.»

L’avrebbe trovata, prima che partisse per Domodossola. E come?

«Senti, fammi un favore, Raimo’. Mi dici qual è il suo indirizzo, il numero di telefono?»

«Eh, professo’, calma. Dio, come vi è presa di brutto. Vi ha colpito in quel modo?»

«Dai, Raimondo. Non fare il fesso. Dammi st’indirizzo. Ho un conto in sospeso con quella lì.»

«Subito! Per la miseria e che furia. Un momento. Eccolo qui. Lo trovo subito. Ecco. Maresca Lucia, via Silvio Pellico, 91 – Salerno. Numero di tel…»

«Ma no. Non è quella. Lei è Esmeralda… Che nome hai detto?»

«Numero di telef…»

«Non il telefono! Ho detto il nome!»

«Sì, il nome… Eccolo qua. Maresca Lucia.»

«Ma… lei è Esmeralda. Cerca Esmeralda Russo.»

L’applicato scorrendo l’elenco:

«Esmeral… Es… Es…»

«Ma no… quello è il nome. Cerca Russo. Russo Esmeralda.»

Ma mo’ sta a vede’ che anche i prof si fanno le canne nei bagni della scuola, pensava Raimondo, mentre cercava Russo sull’elenco.

«Professo’, qui c’è un Russo Salvatore di lettere e una Russo Teresa di Inglese. Di Esmeralde non ce ne sono.»

«Dunque, hai detto? chi era quella?»

«Eh, ve l’ho detto. Maresca Luisa. Professo’, ma vi sentite bene?»

«No. Ho preso un colpo all’anca ed ora incomincia a dolermi forte.»

Il dolore andava aumentando a grandi passi, e non solo quello all’anca.

«Professo’, volete sedervi?»

«No. Vado in classe, Raimo’, grazie. Come si chiama… quella bionda?»

«N’ata vota, prufesso’? E ve l’ho detto un secondo fa! Maresca Luisa! Volete che ve lo scrivo?»

«Lucia, Raimo’ Lucia. Maresca Lucia.»

«Ahe! Maresca Lucia! E io che ho detto?»

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Sono di pessimo umore!

Ho un diavolo per capello

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Una tragica buffonata

Tale è la vita in ogni sua espressione e ad ogni livello-: una tragica buffonata. Il palcoscenico è questa natura buzzurra e pressapochista su cui si è venuta sviluppando in molteplici espressioni. La soluzione per risolvere il problema nutrizionale degli animali è un capolavoro di tragica imbecillità. Il leone è costretto a sbranare una gazzella al giorno per non morire di fame lui e i suoi leoncelli. Il pesce grosso deve divorare il pesce piccolo; insomma, in mare in cielo e in terra è tutto un divorarsi l’uno con l’altro. L’uomo poi è costretto a scannare di tutto per riempirsi il ventre: vitelli maiali capretti agnelli tacchini polli pesci; quasi tutto ciò che ha palpito di vita cade fatto a pezzi nei suoi tegami: è il predatore più famelico del pianeta. Può capitare qualche volta che anche lui diventi un appetitoso bocconcino per qualche tigre o pescecane. Possiamo dire che in natura domina il cannibalismo. Perfino alcune piante carnivore spengono alla vita esseri viventi per cibarsene. Gli erbivori strappano erbe e piante che in qualche modo son pur esse vita. Il massimo del tragicomico ce lo fornisce la mantide religiosa che tanto religiosa non si dimostra quando, dopo essersi fatta ingroppare dal maschio, per tutto ringraziamento, gli stacca la testa e lo divora.

Riferiamoci all’aspetto buffonesco il quale, non di rado, veste anche i panni della tragedia. Guardiamo un po’ dall’alto la faccenda della riproduzione animale. Non è ridicolo il fatto che per riprodursi, bisogna che uno infili una particella del suo corpo in un orifizio dell’altra per spruzzarle dentro un po’ del suo liquido corporeo? E a guardar bene le posizioni dei due perché questo possa avvenire –posizione del missionario, quella a pecora e altre codificate dal Kamasutra– andiamo, non è da ridere? Di più comico c’è solo la torta in faccia. E spesso per questo si ricorre allo stupro.

E vogliamo parlare del rischio di nascere affetto da nanismo, o focomelico o sordo muto e cieco? O femmina in un corpo di maschio e maschio in un corpo di femmina, grazie ad una natura che fa le cose a cazzo di cane?

Questa natura sbadata, approssimativa, grettamente opportunista ci dà una vita talvolta lunga perfino novant’anni, ma ci costringe, se va tutto bene, cioè al netto di malattie, a trascorrerne trenta nella profonda incoscienza del sonno; come chi ti regala una sfogliatella e ti dice che non devi mangiarla tutta ma buttarne almeno un terzo nella spazzatura.

E per lenire l’angoscia del vivere ci creiamo il mito di un dio, di una vita paradisiaca nell’aldilà; pensa tu come siamo messi male su questa terra. E tu che predichi che autore di tutto questo marciume è un dio, gli fai la più cocente delle offese e quindi commetti un peccato da fuoco infernale. Come si vede, oltre ad essere una tragica buffonata, questa vita è anche il luogo di giganteschi paradossi.

Alcuni da più di un paio di millenni ci dicono che siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. Naturalmente non si riferiscono a forme corporee, perché Dio è soltanto puro spirito e il nostro corpo è fatto di carne, anzi di merda. E sì, perché una volta morti se non ci sommergono sotto due metri e più di terra incominciamo a puzzare da fare schifo e puzziamo anche da fare schifo se ogni tanto non ci facciamo una doccia. E il mercato dei profumi – Chanel n° 5 – non perde mai colpi. Allora siamo fatti a somiglianza e immagine di Dio perché abbiamo l’anima, un’anima che partecipa della natura divina, fatta della stessa sostanza di cui è fatto Dio. Siamo l’animale più feroce, famelico, rapace, malvagio, furfante, sanguinario, fratricida, criminale, guerrafondaio, assassino, traditore, cialtrone, malfattore del creato e siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio; e mi figuro tutte queste belle qualità moltiplicate a onnipotenza divina e penso a che cosa potrà mai essere Dio, se è fatto, per la proprietà transitiva, a mia immagine e somiglianza. E sfido io che la morte è la madre di tutte le paure se pensiamo che finiremo nelle mani di un tale Dio. Per fortuna sono ateo.

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25 aprile 2024

Er grillo zoppo

Ormai me reggo su ‘na cianca sola,
– diceva un grillo – Quella che me manca
m’arimase attaccata a la cappiola.
Quanno m’accorsi d’esse’ priggioniero
col laccio ar piede, in mano a un regazzino,
non c’ebbi che un pensiero;
de rivola’ in giardino.

Er dolore fu granne … ma la stilla
de sangue che sortì da la ferita
brillò ner sole come una favilla.
E forse un giorno Iddio benedirà
ogni goccia de sangue ch’é servita
pe’ scrive’ la parola Libbertà!-

Carlo Salustri (Trilussa – Roma, 26 ottobre 1871 – Roma, 21 dicembre 1950)

Adamo

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io che vuol dire io…sento mi sento mi avverto… un vento caldo un soffio mi sfiora il viso mi entra nelle narici qualcosa mi ordina di aprire gli occhi ma io ho la sensazione che farei bene a non aprirli ad aprirli sento che niente di buono me ne verrà sarebbero guai a venire c’è questo tum tum che inizia a battere nel petto… cuore… io ho un cuore… un ordine interiore mi comanda di vivere cos’ero poco fa dovevo stare bene com’ero se adesso mi sento male e altro soffio caldo nelle narici no non apro gli occhi ma l’ordine è troppo imperioso li apro un attimo e li richiudo subito perché una luce violenta mi trafigge il cervello… dovevo essere polvere prima se sale odore di polvere alle narici… mi duole il capo io sto pensando e la cosa mi dà un terribile mal di testa voglio ritornare ciò che ero prima cos’ero forse polvere e stavo bene e adesso cosa sono… e sto male… mi sembra che mi sia stata fatta violenza in qualche modo… intorno a me avverto il vuoto cadrò nel vuoto eppure pare che qualcosa mi sostenga… mi regge mi tiene fermo sono disteso a terra sento l’erba umida sotto la schiena dunque qualcosa ha cambiato il mio stato di non esistenza e in cosa mi ha cambiato sento che prima non ero ed ora sono e che vuol dire perché sono stato costretto ad essere e che cosa sono e chi mi dice che non devo pormi di tali domande che ho il dovere di essere e basta… mi dolgono le ossa e ho brividi per tutto il corpo ma perché mi è stato fatto questo io non sapevo di non essere ed ora so di essere ma non so cosa sono

«Adamo sei. Sei carne, sei vita. Io ti ho fatto dono della vita e ti ho dato un nome. Apri gli occhi!»

questa voce non viene dal mio interno viene dall’alto una voce dura che non mi piace… mi fa dono della vita ma io non ho chiesto alcun dono questo dono mi fa male e mi viene voglia di dire che non volevo nessun dono

«Apri gli occhi e alzati, Adamo! Io sono il Signore tuo Dio. Io ti ho fatto a mia immagine e somiglianza. Tu eri polvere della terra ed io della polvere ho fatto carne, ho dato palpito di vita a vile materia inerte. Tu sei la mia creatura. Ti ho fatto per la mia gloria. Tu spenderai i tuoi giorni a glorificarmi. Io ho piantato un giardino in Eden a oriente e tu dominerai su tutti i pesci e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere e sopra tutti i rettili che strisciano sulla terra. Io farò germogliare dalla terra ogni erba e ogni albero fruttifero e di piacevole aspetto. Ecco, io ti do ogni pianta che fa seme su tutta la superficie terrena e ogni albero fruttifero che fa seme e di questi tu ti ciberai e si ciberà di questi ogni essere che ha in sé anima vivente. Io ti darò acqua per irrigare i campi e tu coltiverai il suolo e farai salire l’acqua dai canali che io riempirò di pioggia. Io farò nascere un fiume in Eden che irrigherà tutto il giardino. Io ti porrò in questo giardino che tu coltiverai e custodirai. Tu potrai mangiare liberamente di ogni albero del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non mangerai, perché il giorno che tu ne mangiassi, moriresti.»

io ti dono io farò io ti do io non ci capisco niente e ho sempre più forte la sensazione che stavo meglio prima qualunque cosa io fossi o non fossi

«Apri gli occhi, dunque. Guardati intorno. Sei nel Paradiso terrestre. Vedrai le meraviglie di cui ti ho circondato. Guarda che poema è un albero. Non è dramma il contorcersi del tronco di quell’ulivo che si protende di tra le rocce arse dal sole? È danza l’agitarsi al lieve vento dell’elegante cipresso. E la fioritura del ciliegio non è lirismo puro? A quelle candide nuvole nel cielo potrai ispirarti per raccontarti fiabe fanciulle, e quando avrai voglia di struggimenti ci saranno i tramonti sul mare, e di notte il cielo trapunto di stelle ti parlerà della mia potente benevolenza. Io ti condurrò tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo e tu darai loro un nome e quello sarà il loro nome. Apri gli occhi. È il tuo Dio che te lo ordina!»

io non apro gli occhi sì io apro gli occhi va bene piano però perché mi fa male aprirli… li apro e li richiudo e li riapro e c’è troppa luce ma mi vado abituando abbi pazienza Signore sono appena nato riesco a tenerli aperti sempre più a lungo ma è nebbia quella che mi circonda una nebbia luminescente azzurrina le immagini si vanno schiarendo… mi alzo sui piedi barcollo e le palme dei piedi a poggiarle sul terreno mi dolgono è spaventoso ciò che mi circonda forme animali mal distinguibili mostruose che si muovono vedo verde intorno e azzurro se alzo il capo un’azzurrità immensa che mi sgomenta ho paura ho bisogno del buio Signore aiutami Signore muovo i primi passi ma tutto mi spaventa ho bisogno dell’ombra provo a correre verso una macchia buia è l’ingresso di una caverna cado mi rialzo corro inciampo guadagno il fondo della grotta respiro a fatica qui va un po’ meglio ma Signore riportami allo stato in cui ero prima di nascere questo luogo non è adatto a me mi procura malessere io stavo meglio quando non ero o forse non stavo per niente ma non soffrivo Signore perché mi hai fatto questo scherzo Signore rispondimi ti prego

Devo essermi addormentato. Un sonno ristoratore davvero, perché mi sento rasserenato. Non ho più desiderio del buio. Esco alla luce senza che ciò mi rechi fastidio di sorta. L’aria che respiro ha un sapore nuovo, me ne riempio a fondo i polmoni a più riprese. Mi guardo il corpo e trovo belle le braccia e le gambe ed anche il petto e sento che posso dominare e farmi obbedire da ogni organo del mio corpo. Trovo utili le mani con cui posso strappare l’erba dal terreno e i frutti dai rami. Posso alzarmi sulle punte dei piedi a cogliere dai rami più alti. Sono stato fatto bene e mi sento bene e ho voglia di specchiarmi in uno stagno per conoscermi meglio.

Intorno alberi e piante e zolle di terra e fiori, tutto sprigiona una forza vitale che mi infonde vigore e gioia di vivere.

Intanto all’imboccatura della grotta si vanno radunando numerosi animali, molti di essi piacevoli a vedersi, eleganti nelle movenze. Dal dolce canto alcuni uccelli. Di vistosi colori alcuni insetti volanti. Esco dalla caverna e la luce non mi ferisce più gli occhi come prima. Posso guardare la vastità del cielo azzurro senza sgomento. Il petto mi si riempie di aria profumata. Intorno splendono colori che rallegrano gli occhi e danno gioia. La vasta pianura davanti alla grotta è tutta un rigoglio di alberi carichi di gemme e piante ricche di fiori. C’è armonia di forme e di colori dappertutto. È davvero un paradiso.

Gli animali si appressano all’ingresso della grotta e mi circondano, qualcuno mi si struscia alle gambe. Tutti mostrano negli occhi il desiderio di essere chiamati, vogliono che dia loro un nome. Mi è stato ordinato di dare loro un nome. A che serve un nome? Vediamo. Cane, tu ti chiamerai cane. Cane, vieni qua. Mi si avvicina una torma di animali l’uno un po’ dissimile dall’altro ma con delle caratteristiche comuni. Abbaiano tutti allo stesso modo, più o meno, latrano, uggiolano, guaiscono, agitano la coda, mi leccano le mani, le gambe, qualcuno si alza sulle zampe di dietro e giunge fino a leccarmi il viso; tutti lo fanno festosamente. Mi piacciono queste loro attestazioni di affettuoso servilismo. Allora do nome al cavallo ed uno di essi tutto nero con una stella bianca in fronte si offre di prendermi in groppa. Da oggi in poi tu sarai asino e tu capra e tu, vediamo, sì, coniglio.

È sera e avrò dato il nome a più di un migliaio di specie animali, ma ci sono gli uccelli a cui devo dare un nome e sono di infinite specie diverse, e poi gli insetti e i rettili e i pesci del fiume e del mare, e sono così diversi gli uni dagli altri che non posso dare a tutti lo stesso nome. Adesso però sono stanco, vado a dormire, ne riparleremo domani.

Appena spunta il sole vengo svegliato da un’ondata di muggiti, belati, cinguetii, squittii, sibili, barriti, ululati, ruggiti, bramiti, gracidii, gracchii, e richiami bestiali delle più svariate tonalità e altezza. Mi affaccio alla caverna e vedo la pianura invasa da un oceano di bestie di migliaia di razze. L’aria è densa di voli d’insetti e più in alto volano stormi di uccelli così compatti da oscurare il sole. E tutti sono lì perché aspettano che io dia loro un nome. E sono tutti miei. Il Signore mio Padre me li ha dati. Posso farne ciò che voglio. E devo dare loro un nome. Ma io come faccio a dare un nome a questa miriade di animali? Signore, come faccio? Padre rispondimi. Ma anche se la voce mi rispondesse, io non la sentirei, sopraffatta come sarebbe dal frastuono che fanno gli animali. Tacete, chetatevi! Adesso darò il nome a ciascuno di voi, ma smettetela di muggire! I muggiti si estinguono. E di ruggire. Anche i ruggiti si assopiscono. E i belati. E i guaiti. E i bramiti. Mi obbediscono. Lascio in vita solo il canto degli usignoli. Così si lavora meglio.

È trascorsa una settimana. Sono esausto. Non posso stare qui dall’alba al tramonto a dare nomi. E poi ci sono anche le bestie notturne che vengono a disturbare il sonno e vorrebbero che io lavorassi anche di notte. E ci vuole il bello e il buono per far capire loro che avranno un nome quando avrò preso l’abitudine di dormire di giorno e vegliare di notte.

È trascorsa un’altra settimana e sono a pezzi, non connetto più col cervello. Ho invocato il Signore mio Dio più di una volta, ma non mi risponde. Mi ha dato davvero un compito estenuante. Cosa posso fare? Nascondermi. Ecco, sì. Non farmi più trovare almeno per una settimana. Avrò pure diritto a un po’ di riposo ogni tanto.

«È vero, Adamo. Hai ragione! Hai diritto al riposo. Anche io mi sono riposato dopo una settimana di lavoro.» Finalmente, Signore mio Dio, mi ascolti.

«Anzi, ti dirò di più: ho pensato di crearti un aiuto. Un altro essere fatto ad immagine e somiglianza di te e di me. Non puoi stare sempre solo e soltanto con le bestie. Ti abbrutisci. Ti farò un aiuto simile a te.»

Un aiuto come uno? Uno solo? Signore, qui ce ne vogliono almeno mille di aiuti. Signore! Signore mio Dio! Niente. Un aiuto? Uno solo? Che me ne faccio di uno solo? Niente, è andato via. Io, intanto che mi fa l’aiuto, resto ancora latitante nascosto nel cavo di quest’albero, sto a vedere che tipo di aiuto mi fa. Me ne vado a dormire.

Mi sveglia un dolore lancinante al petto. Qui sul lato destro. Ahi, faccio fatica anche a respirare. Alzarmi in piedi manco a pensarci, mi sento strappare dentro. Mi trascino carponi fuori dal cavo dell’albero. Signore, cos’è questo dolore? È un male insopportabile. E cos’è quest’animale che si è venuto a sdraiare davanti al cavo dell’albero? Che strano animale! Non è ricoperto né di peli né di piume e neppure di squame. Che fa, dorme? O è morto? Avrà mica mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male ed è morto? Morto? E che significa?

«Non è un animale e non è morto, Adamo. Cioè, è un animale in quanto ha un’anima come l’hai tu. È in tutto simile a te. Dorme. Tra poco si sveglierà.»

Per la verità, proprio simile a me non mi pare. A mezzo il corpo le manca qualcosa e più su ha due cose che io non ho.

«Sarà la tua compagna, ti aiuterà nell’amministrare il giardino e ti farà lieti i giorni.»

Ahi, ‘sto dolore. Non posso alzarmi in piedi Signore. Striscerò per sempre come un rettile, come un verme, Signore?

«Questo dolore ed una costola è il prezzo che hai pagato per avere una compagna. Mentre dormivi, ho tratto una costola dal tuo petto e con essa ho modellato la donna che sarà tua moglie. Tra un po’ il dolore ti passerà».

Ecco, apre gli occhi. Li sbatte una, due volte. Ha ciglia lunghe. Li apre infine e li tiene aperti con decisione. Sorride. Si alza in piedi, neppure barcolla, neanche un po’. Cammina come se avesse camminato da sempre. Va verso la pianura. Rimane un po’ ferma a guardarsi intorno. Un uccello le si posa sulla mano che lei ha alzato quasi a chiamarlo e sembra che si parlino. Sembra che si conoscano da tempo. Si gira e viene verso di me sorridendo. Ha un incedere fiero ed elegante. La sua femminilità è partecipe della natura ed è fertilità in potenza come la natura intorno lo è in essenza.

I suoi piedi si poggiano su un terreno contento di ogni suo passo. Ma è nata poco fa o è stata sempre in questo giardino? Forse è stata sempre di questo giardino. Forse è questo giardino. Vi si muove con una sicurezza padrona. A pensare quello che ho passato io appena dopo natomi fa una rabbia. La picchierei. Però è bella. Ha d’oro i capelli e di cielo gli occhi. Leggiadre le movenze. Il sorriso luminoso però mi irrita. Che ha da sorridere? Sorride a me o piuttosto all’essere viva? Mi giunge vicino e mi tende una mano. Mi aiuta ad alzarmi ed io mi alzo col suo aiuto, senza avvertire più alcun dolore al petto. Mi fissa gli occhi negli occhi. Mi sorride un sorriso complice? o possessivo? o materno? Io non ho madre, forse padre sì, ma madre no. Non vedi che non ho l’ombelico? Mentre tu, anche se non hai l’ombelico, hai carne della mia carne. Sei fatta di me. Io vengo dalla terra e non devo niente a nessuno se non al Signore mio Dio che mi ha fatto, e se mi ha fatto è perché ha bisogno di me e mi deve riconoscenza. Il Signore ti ha fatto dalle ossa del mio corpo, ma neppure aveva bisogno di te, ti ha fatta perché ha pensato che ho bisogno di te, ma io non ho bisogno di te. Io sto bene da solo e quando avrò finito il mio lavoro mi godrò le ore e i giorni nel dolce vivere libero immerso nella natura di questo rigoglioso giardino. Credi di farmi cosa tua? Tu sei nata da me e il Signore mio Dio ti ha data a me come cosa mia. Penso e non so altro che tacere. Una volta in piedi, le spingo via nervosamente la mano dalla mia. Cosa crede, che avevo bisogno di lei? Signore, è questo l’aiuto che mi hai fatto? Che me ne faccio di un aiuto così delicato? Per come è fatta, si stancherà presto. Che vuol dire che sarà mia moglie? Mi sembra che me l’hai data per farmi stregare da lei. Non vedi che il suo sorriso tenta di soggiogarmi? Sento che mi farà la guerra. Non capisco se vuole essermi amica o nemica. Mi complica la vita. Mi hai dato un aiuto o un problema in più? Non vedi che cerca di togliermi le forze? Ho il presentimento che mi prosciugherà. Sì, le leggo sul volto il desiderio di bermi, come fossi pura acqua di fonte. Mi hai dato una compagna o mi hai messo accanto un demone? Signore, che cosa mi hai dato? Io non so che farmene.

«Vedo che ti piace, Adamo, perché ti ha sconvolto e ciò è buono. Sì, mi è riuscita proprio bene, meglio di te. Ne facessi un altro, mi riuscirebbe ancora meglio; ma farne altri è compito che affido a voi due. Questo è nel mio progetto. Adamo, non essere stupido. Restale accanto e saprai presto cosa dovrai essere per lei e cosa sarà lei per te. Lei ti aiuterà a capirlo. Ma non lasciarti soggiogare, devi essere tu a soggiogarla. Imparerete ad essere insieme una sola carne. Sia l’amore a guidare i vostri passi, i vostri corpi e le vostre anime siano strumenti capaci di fondersi in un’armonia celestiale che si innalzerà nei cieli come un inno di gloria al creato. Comincia con l’imporle il nome. Fai in modo che con quel nome pronunciato da te con voce imperiosa lei si volti e ti venga vicino a prendere conto dei tuoi desideri. Sappi essere uomo, Adamo, e lei ti sarà donna e femmina, madre e sorella, schiava e padrona. Dipenderà da te se vorrai che sia angelo oppure demone. Io te l’affido e a lei ti affido perché popoliate di uomini questo giardino che sarà il vostro Paradiso. E tu parlale dell’albero della conoscenza del bene e del male e se saprai farti amare da lei, amare ed obbedire, vivrete in eterno in questo Eden. Attenti al frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ricorda: quel frutto mangiarlo sarebbe la fine di tutto, il ritorno alla polvere, il nero eterno. Comincia ad imporle il nome e lei comincerà a capire che sei il suo signore».

Signore, il tuo dire mi confonde, ho nella testa un marasma… troppo meschino il mio cervello per penetrare il senso del tuo progetto. Come potrò dominarla se solo con lo sguardo mi sconvolge l’anima. Io il suo signore? Signore mio Dio, aspetta, non andare via. Stammi ancora d’accanto, almeno finché non avrò forgiato in me gli strumenti per difendermi da lei, per asservirla ai miei voleri. Che poi neppure so quali sono i miei voleri. Non mi lasciare in sua balìa così inerme come sono. Le calde sinuosità del suo corpo mi fanno sentire come cera al sole. Lo splendore dei suoi occhi, il corallo delle sue labbra, la turgida morbidezza del suo seno e il tepore che sprigiona dalla sommità delle sue cosce mi disorientano i battiti del cuore, mi impazziscono il corso del sangue nelle vene. Signore, non mi abbandonare, ho paura.

Devo riflettere, devo riflettere col poco pensiero che ho a disposizione. Ora vado da lei che sta seduta sotto quella quercia, vado con passo deciso… e cosa le dico? Ecco, le darò il nome, un nome brutto, il più brutto possibile, così che si senta umiliata, e quello sarà il suo nome. La chiamerò Cameloparda. No, più brutto, Panteropiteca, ecco, la chiamerò Scimpalorda, ecco, sì Scimpalorda mi sembra proprio brutto. Vediamo se riesco a spegnerle quel sorriso sulle labbra. Mi avvicino. Si alza ed assume un atteggiamento mansueto che un po’ attenua il mio desiderio di esserle ostile. Le punto il dito verso il viso e il più imperiosamente possibile quasi le urlo:

«Tu ti chiamerai… il tuo nome sarà… tu mi risponderai quando io ti chiamerò…»

«Eva» mi previene con una voce che mi accarezza il cuore.

Resto perplesso.

«Eva? Perché Eva? Da dove viene fuori questo nome? Chi te lo ha dato? Sono io che devo darti il nome!»

Attenua lo splendore del suo viso e resta in attesa.

«Tu ti chiamerai Scimpalorda!» le dico un po’ meno convinto. Dopo tutto Eva è un bel nome e le sta come rosa alla rosa e paradisea alla farfalla. Si incupisce. Poi con tono languido:

«Come tu desideri. Se vuoi storcere in modo così ridicolo la bocca, assumere un atteggiamento del volto che ti fa sembrare una scimmia nel chiamarmi, sia fatta la tua volontà. A me sarebbe piaciuto Eva. È più breve e mi porterebbe a te più lesta e bendisposta. Con quale animo, con quale desiderio di accondiscendenza, con che voglia di esaudire i tuoi voleri verrò a te sentendomi chiamare Scimpalorda? Che ti ho fatto di male per meritare un nome così? Su, non essere cattivo con me, io sarò per te tutto quello che vorrai che io sia – si avvicina al mio viso e quasi sulla bocca – Io mi sono sentita Eva fin dal primo momento che ho aperto gli occhi. Il mio nome è nato con me». Preme le sue labbra sulle mie e il profumo di fiori esotici mi riempie le nari ed è miele quello che versa nella mia bocca e che mi scende fin nel basso ventre e i suoi seni quasi mi pungono il petto e il suo ventre aderisce al mio e le sue cosce mi stringono i fianchi e mentre Eva Eva Eva le sussurro sulla bocca, in un orecchio, sul collo, sul seno, cadiamo, l’uno nell’altra, sull’erba morbida del prato.

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‘O ciuccio ‘e Fechella

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Quando mia madre mi vedeva con un ginocchio sbucciato, conseguenza di una partita di calcio giocata sul lastricato della strada, con qualche livido su un braccio, per una parata fatta poco prima che l’attaccante avversario sferrasse il suo calcio risolutore che invece di giungere al pallone, colpiva uno dei miei avambracci che erano riusciti ad abbrancare il pallone, e in più con una brutta tosse per la sudata fatta correndo da ala destra dopo aver scontato il mio turno in porta, mi diceva:«Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella: nuvantanove chiaje e ‘a coda fraceta.»Sembri l’asino di Fichella: novantanove piaghe e la coda marcia.

Uno che si lamenta per i suoi numerosi acciacchi di salute e ne va facendo pubblica declamazione, dalle mie parti, prima o poi rischia ancora di sentirselo dire da qualcuno non più giovincello: Pare ‘o ciuccio ‘e Fechella.

Ora io non so dire chi fosse questa Fichella, ma certamente doveva essere una contadina appartenente ad una civiltà che oggi si studia solo sui libri di storia, quella civiltà contadina dei tempi più che andati, quando il trattore era ancora di là da venire a rendere meno gravoso il lavoro dei campi e le bestie come un ciuccio erano preziosi compagni di fatica, dei quali ci si serviva fino allo stremo delle loro forze e finché avessero lo spirito vitale bastante a tirare un carretto con un po’ di verdura da vendere.

E Fichella me la immagino poverissima, tanto da non avere i soldi per pagare la pensione al suo ciuccio e quelli per comprarne un altro e quindi lo teneva al lavoro pur se la povera bestia aveva nuvantanove chiaje e ‘a coda fraceta.

Sì, questa doveva essere Fichella, pace all’anima sua.

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Un detto napoletano

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Un mio vecchio post calza a pennello per definire i pruriti di più di un politico che in politica ci sta come i cavoli a merenda grazie ai tanti che amano fare merenda con i cavoli. Lo ripropongo perché mi sembra attuale più che mai.

C’è un breve detto napoletano che ha tutta l’incisività, l’icasticità e la potenza bozzettistica di un epigramma di Marziale. Nella sua accezione metaforica si attaglia a quell’individuo – maschio non meno che femmina – che, pur non avendo alcun ingegno, talento o dote musicale e ignorando qualsiasi tecnica strumentale in grado di trarre una sonorità perfino da un tam tam, vuol far parte della banda musicale che va suonando per il corso principale del paese in occasione della festa del santo patrono. Anzi, non solo ne vuol far parte, ma pretende di esserne a capo e quindi si pone alla testa, a mo’ di capobanda. E purtroppo, non avendo uno strumento cui dar fiato, e pur volendo in qualche modo produrre una sonorità e dare ritmo alla musica, che fa?

FA ‘E PPÉRETE ANNANZE ‘A BBANDA

ovvero fa le scoregge davanti alla banda, cercando di andare a tempo con il ritmo marziale dell’inno in atto, e innalzando, a suo parere, le sonorità flatulenti del suo ano a dignità musicale, pienamente convinto di dare un irrinunciabile contributo senza il quale il pezzo risulterebbe oltremodo scadente. Il bozzetto, ne convieni, è esilarante e l’alto valore significante è degno dello spirito epigrammatico di un G. Belli, di un Trilussa e… non voglio scomodare ulteriori classici .

Ma usciamo dalla metafora.

Il detto in questione veste a pennello chi, non avendo qualità e competenze specifiche, reclama riconoscimenti e si appropria funzioni e cariche per cui non è affatto tagliato ed è lontano le millantamila miglia dall’essere in grado di assolvere i compiti e i doveri propri del ruolo; ma, volendo tuttavia avere voce in capitolo nel consesso del quale è entrato a far parte, parla a vanvera, esprime opinioni bizantine, propone soluzioni balzane a problemi di cui neppure conosce la natura, lancia invettive incongruenti contro la parte avversa, si proclama vittima di complotto ogni volta che gli si pongono davanti le irrefutabili prove delle sue malefatte, infila strafalcioni ed errori uno dietro l’altro e insomma fa ‘e ppérete annanze ‘a bbanda.

Ne conosciamo qualcuno soprattutto in ambito politico. Per me il più degno dei rappresentanti è stato un certo senatore Antonio che al Senato c’era per farsi li razzi suoi. Di questi tempi ne abbiamo parecchi di ogni colore al governo e fuori.

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da “Operette immorali”

Avvenne in Paradiso

Il Sommo Fattore si alzò quella mattina che gli doleva un po’ il triangolo sulla testa. Si sedette alla scrivania e subito Gli saltò all’occhio una petizione, una richiesta di trasferimento avanzata da san Giuseppe. Mentre leggeva il Suo sbalordimento fece fremere le colonne dell’Empireo. Finito di leggere, tuonò:

«Pietro!»

Il Santo portinaio balzò dal sonno pensando che un’orda di diavoli stesse assaltando le mura del Castello.

«Pietrooo!»

Il Santo si stropicciò gli occhi e capì che la giornata cominciava davvero male. Assicuratosi che nessun esercito luciferino stesse premendo alle porte del Paradiso, si precipitò nell’Ufficio di Direzione.

«Immensità, mi avete chiamato?» chiese san Pietro in un profondo inchino.

«Ched’è ‘sta carta ‘ncopp’ ‘a scrivania?» Il Santissimo Volto era più nero di una nuvola carica di pioggia.

Pietro prese il foglio che il Boss gli agitava sotto al naso e lesse. Grande fu anche il suo sconcerto.

«E allora? Che significa ‘sta cosa?» chiese il Perfettissimo. «Quanno maie ‘nu Santo ha fatto ‘na simile richiesta? E san Giuseppe poi, ‘o Santo e tutt’ ‘e Sante! Questo è alto tradimento! Si è ‘nu scherzo, l’avisseva sape’ che a me nun me piace ‘e pazzia’»

«Vostra Perfezione, ma io che ne saccio? Io ‘o guardaportone faccio, mica mi interesso delle scartoffie che capitano sulla Vostra scrivania! Domandate a san Ciro, chillo fa l’avvucato e c’ha dimestichezza con queste pratiche», si scusò san Pietro, sperando di dirottare l’ira di Dio lontano dalle parti basse del suo corpo.

«No, fa’ ‘na cosa, chiàmmame direttamente a chillo ‘nzallanuto e san Giuseppe. Fallo venire qua ‘e corza,» ordinò l’Altissimo.

San Pietro uscì dalla Direzione e diede ordine ad un cherubino di volare come un fulmine da san Giuseppe e gli dicesse che il Padrone lo voleva d’urgenza.

San Giuseppe, alla notizia del cherubino, subito capì che la sua iniziativa prendeva il giusto corso e con tutta calma e strascinando un passo derelitto, salì la Somma Collina e bussò all’Ufficio di Direzione.

«Avanti!» fu un tuono e cinque o sei mele dell’Albero della Conoscenza in fondo al Giardino dell’Eden, già mezze acciaccate dalle precedenti urla, morirono per lo spavento, si staccarono dai rami e rovinarono sul terreno sottostante; ma il tuono non ebbe alcun effetto intimidatorio sull’animo esulcerato del Santo. Questi spinse la porta che emise un rassegnato cigolìo ed entrò.

«Vostra Sublime Paternità, sono a Vostra disposizione.»

Il Padreterno notò l’aria afflitta del suo Santo più caro, il padre putativo del Figlio. Sapeva bene che non aveva mai digerito l’intervento dello Spirito Santo nei di lui fatti di famiglia. Lo vide pallido e un po’ trasandato e decise di addolcire i toni del Suo dire.

«Peppi’, assièttate», lo invitò con pacatezza.

«Preferisco restare in piedi», disse il Santo con tono accorato.

Il Signore lo fulminò con lo sguardo. S’era dimenticato san Giuseppe che il Boss non ammetteva deroghe al Suo volere? Si sedette.

«Fammi capire un po’, don Peppi’: tu hai chiesto di essere trasferito all’Inferno? Vuoi passare al Nemico e me lo vieni a chiedere in carta da bollo?»

San Giuseppe abbassò lo sguardo costernato e il Capo continuò:

«È una provocazione, uno scherzo, cos’è? E guardami negli occhi quando ti parlo!»

È una parola! E come si fa a sostenere lo sguardo adirato del Sommo Creatore di ogni atomo che vive, si muove o sta fermo nell’universo?

«Vostra Creatività, io non voglio passare al Nemico; ma in questo posto non ci posso più stare.»

Il Sommo gli rivolse uno sguardo incredulo leggermente disgustato; prese un sigaro dal portasigari d’oro sulla scrivania, lo accese con gesti misurati, gettò uno sbuffo di fumo verso l’alto e riprese:

«In questo posto, san Giuse’, tu sei il Santo più privilegiato. Ti ho offerto uno scranno prestigioso subito sotto al mio trono a fianco della Madonna e te lo meriti perché sei il Padre del Figlio di Dio. E tu, dopo un po’, hai chiesto di poterti trasferire in quella villa solitaria in campagna e neanche hai voluto portare con te tua moglie. E vada per la villa e la tua vita da eremita! Ti è stato concesso. In questo posto hai la facoltà di soddisfare ogni tuo capriccio e tu dici che non ci puoi più stare e che nientedimeno vuoi essere trasferito all’Inferno? Ma hai proprio perz’ ‘a capa, Peppi’?»

San Giusppe alzò il viso deciso a sostenere ad ogni costo lo sguardo del Capo per quanto irato potesse essere e poi con un sorriso tendente al sarcastico:

«Io il padre del Figlio di Dio, eh? Il vero padre del Figlio di Voscienza Infinita non sono io, voi sapete bene di chi è …»

«Uuuuh, Peppi’, ancora cu’ ‘sta questione d’ ‘o Spirito Santo? – lo interruppe il Padreterno. – E basta! E te l’aggio spiegato tante volte. Muglièreta ha concepito senza peccato! Il Figlio se l’è trovato dinto ‘a panza per opera mia, senza che nessuno sfiorasse il suo corpo neppure con un dito! Azz, ma si’ tuosto di comprendonio!

«E io questo posso pure capirlo! – si rivoltò san Giuseppe. – Ma andate a farlo capire pure a san Luca e a tutti gli altri!»

«A san Luca? Ma pecché che dice san Luca?» chiese curioso il Sommo.

«Quello cammina sempre affiancato dal suo toro. Io poi vulesse capi’ comm’è ca uno se po affeziona’ a ‘nu toro.»

«E sant’Antonio Abate che sì è affezionato a ‘nu puorco? Nun se contano ‘e Sante che c’hanno una bestia per compagnia. Ma che male c’è?», chiese il Padreterno.

«Vabbuo’. ‘O fatto è ca ‘o toro di san Luca non muggisce mai. L’avete mai sentito muggire Voi? Mai! Soltanto quando passa sotto ‘o balcone d’ ‘a casa mia, muggisce, tre quattro volte, muuuh, muuuh.

«Embe’, e che fa se muggisce? Ti dà fastidio il toro che muggisce? E che male fa? E che ce po’ fa’ san Luca se il toro muggisce? Mica glielo può impedire.»

«Ahe! Vostra Bontà Infinita fa finta di non capire. Quello lo fa muggire apposta! Non lo so che gli fa, lo pungola o gli infila un bastone nel culo o gli dà un calcio nelle palle. Muggisce solo quando passa sotto al mio balcone. Per il resto muto come un pesce. Comme se spiega stu fatto?»

«E perché san Luca dovrebbe dare i tormenti al suo toro per farlo muggire quando passa sotto al tuo balcone?» chiese il Sommo perplesso.

«Eh, vabbuo’. Allora Vostra Eternità proprio non vuole capire? Quello il toro muggendo mi chiama cornuto!»

«Il toro ti chiama cornuto?» chiese sorpreso l’Onnipotente.

«Sì, insomma… il toro… san Luca, lo fa muggire e tramite il toro mi chiama cornuto. E pure santa Caterina e santa Brigida. Ieri, incontrandomi al mercato, mi fanno: “A proposito don Peppi’, che dice il veterinario, come sta il piccione? Gli è passata la parassitosi? Salutatecelo tanto tanto”, e si mettono a ridere.»

«Ma perché ti sei messo l’allevamento dei piccioni?»

«E vabbuo’ Vostra Onniscienza’, e mo mettetevi a sfottere pure Voi.»

«Ma io non capisco … » disse il Sempiterno sinceramente confuso.

«Voi come avete deciso che debba essere raffigurato lo Spirito Santo?» chiese san Giuseppe con tono ironico.

«Come una bianca colomba, simbolo di purezza …»

«Eh, nu piccione!»

«Ah! Le due Sante a questo facevano riferimento?» si rabbuiò l’Eterno.

«E no?»

«E brave! Fanno tanto le santarelline e poi pure loro si azzuppano il pane. »

«E san Gennaro?»

«Pure san Gennaro? E che ti dice san Gennaro, jamme, sentimmo!.»

«L’altro giorno l’ho incontrato e mi ha detto: “Uhe, don Pe’, come state? Per caso avete visto san Martino? Io lo chiedo a voi perché so che siete molto amici, vi volete un sacco di bene, e voi la sua benevolenza ve la meritate tutta» recitò il Santo in falsetto.

«Embe’? Che cosa ti ha detto di offensivo, san Gennaro? Si è interessato della tua salute, è stato gentile e ti ha chiesto un’informazione. Che ha fatto di male?»

«Santissimo, possibile che qua in Paradiso Voi siete l’unico a non sapere che san Martino è il protettore dei cornuti? Eppure dicono che siete onnisciente.»

«Lascia perdere ‘ste fantasie che se le inventano gli uomini. Ma dimmi un po’, anche i cornuti hanno un santo protettore?

«Anche i cornuti» affermò accorato san Giuseppe

«Ma tu guarda un po’, st’umanità non tiene che altro inventarsi! Gesù, Gesù!»

Il Figlio, sentendosi chiamare. entrò come un bolide nell’Ufficio di Direzione, si fermò in mezzo alla sala e urlò:

«Ηλει Ηλει λεμα σαβαχθανει»

Il Padre ebbe un sussulto, Gli si avvicinò e accarezzandoGli la barba:

«Stai tranquillo che non ti abbandono. Vai, va’ che la Maddalena ti vuole. La devi smettere di parlare in aramaico. Lo vuoi capire che non ti fa bene?». Lo prese affettuosamente per le spalle e lo condusse verso la porta:

«Maddale’, pìgliate a chisto!» gridò verso il corridoio.

Rivolto a san Giuseppe:

«Sono passati più di duemila anni e ancora non si è ripreso dallo shock».

«Ma che ha detto?» chiese san Giuseppe.

« Niente, sempre con quella frase, ce l’ha stampata nel cervello. Eli, Eli lamà sabactàni. La solita solfa: Padre, Padre, perché mi abbandoni? L’hanno cumbinato chellu poco chilli quatto fetiente sulla Terra. Ma torniamo a noi. Dicevamo? Ah, sì. Possibile che anche il Paradiso stia diventando il regno della maldicenza? Bisogna correre ai ripari.»

Il Padreterno fece una pausa di amara riflessione.

Dopo un po’ san Giuseppe aggiunse:

«E per finire, l’altro ieri il Vostro Simbolo di Purezza, mi è passato a volo sopra il capo e mi ha… sì, insomma ha sganciato e mi ha inguacchiato tutta l’aureola. Sarà pure un simbolo di purezza, ma quanno…» s’interruppe il Santo prossimo alle lacrime.

«Ah no, e questo proprio non sta bene! Prenderò dei provvedimenti! La colomba la farò chiudere in gabbia per seicento anni, a san Luca dirò che il toro lo deve tenere nella stalla e non se lo deve portare in giro e specialmente passare sotto al tuo balcone. Alle santarelline e a san Gennaro gliene dirò quattro. Insomma farò un’assemblea plenaria e spiegherò una volta per tutte la questione dello Spirito Santo e chiunque dirà che non è come dico io, se la dovrà vedere con me! Stai tranquillo, adesso metterò io a posto le cose. Tu nun da’ retta ‘e chiacchiere.»

Il Padre era sinceramente indispettito, ma dopo un po’ si rivolse al Santo raddolcito:

«Ma poi… pure tu, chiedere di essere trasferito all’Inferno… andiamo, mi vuoi spezzare il cuore? Se proprio vuoi dare seguito alla cosa, ti posso fare una raccomandazione per il Paradiso di Allah. Non è che sono proprio in buoni rapporti, ma un favore… se glielo chiedo con umiltà, non me lo può negare. Sai com’è, tra divinità… Là hai voglia di vergini, non come qui che si contano sulle dita di una mano; lì le quote rosa si dice siano sul settantasette a uno e tutte vergini. Però il nostro Paradiso senza di te non sarebbe più lo stesso. A Natale non potremmo manco più fare il presepe. Dai, lo strappiamo questo foglio?»

«E strappiamolo, ma io sono esasperato… Per il fatto del Paradiso di Allah, lasciate perdere: di vergini non ne voglio più sentir parlare.»

San Giuseppe si alzò, accennò col capo un inchino verso l’Altissimo, voltò le spalle e mogio mogio se ne ritornò alla sua villa in campagna.

Il Sommo Fattore rimase pensieroso. Dopo un po’ prese penna e foglio e cominciò ad abbozzare l’omelia che avrebbe fatto la domenica successiva a messa sulla questione dello Spirito Santo.

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‘A ‘mbuttunata

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Un po’ di tempo fa, di fronte al mio balcone che dava su una strada verso la zona alta del paese, c’era il balcone dell’abitazione di una famiglia, uno dei membri della quale era una zitellona settantina che tutti chiamavano ‘a ‘mbuttunata, che tradotto in italiano sarebbe “l’imbottita”. Le era stato dato questo soprannome perché si diceva che, per rendere all’apparenza più florida la zona dove le donne hanno il seno, lei ci metteva un’imbottitura fatta di panni; evidentemente la poverina scarseggiava in quel punto di quelle attrattive femminee e aveva pensato di sopperirvi in quel modo, essendo ancora non priva della fregola di attrarre foss’anche soltanto gli sguardi dei maschi; così almeno si malignava nel quartiere.

Nel palazzo attiguo a quello in cui io da ragazzo abitavo, viveva al piano terra, zi’ Fiuccio, così chiamato dopo varie storpiature del nome che portava da Raffaele a Raffaeluccio, Rafiluccio e infine, per non farla troppo lunga, a Fiuccio. Sarebbe stato un arzillo vecchietto sulla ottantina se non l’avesse afflitto una vistosa zoppìa che lo costringeva a camminare sbilenco e a servirsi di un bastone.

Nelle belle giornate, zi’ Fiuccio si sedeva sotto la sua finestra sulla strada, e, siccome disponeva alla vista di parecchie diottrie nonostante l’età, aspettava che al balcone si affacciasse ‘a ‘mbuttunata per poter con lei farsi gli occhi dolci coltivando così il loro amore clandestino. Ora non ricordo perché questo loro amore fosse clandestino, forse perché a dichiararlo avrebbe fatto ridere tutti i polli dei pollai nelle campagne circostanti. Comunque essi agivano come se il loro amore fosse clandestino, lei dal balcone e lui seduto su una sedia davanti al portone di casa; ma forse la questione stava tutta nel fatto che nessuno dei due osava superare la soglia dell’amore platonico, voglio pensarla così.

‘A casarella ‘e zi’ Aniello ‘o scarparo era un casotto a fil di strada, anzi di viale, poco lontano dai luoghi testé descritti. Zi’ Aniello vi esercitava il mestiere di ciabattino ed aveva Filippiello come aiutante. Oltre ai due c’era posto in quel gabbiotto soltanto per al massimo tre perdigiorni i quali sedevano su impropri sgabelli poco discosti dal deschetto da lavoro. Il casotto, oltre ad essere un luogo dove si risuolavano scarpe e talvolta se ne facevano ex novo, era un centro culturale dove la filosofia scorreva a fiumi; è vero, si trattava di filosofia spicciola, ma appunto era quella che serviva al vivere quotidiano. Abbandonando il filosofare si passava a parlare non di calcio ché allora non c’era ancora la tv a renderlo pervasivo di ogni rapporto conviviale di bassa levatura come oggi, ma si parlava di cinema. Le pareti del casotto erano tutte tappezzate di piccole locandine di film tipo ”Ombre rosse” di J. Ford – “Sangue e arena” con Tyrone Power – “Le quattro piume” – “Gilda” con Rita Hayworth – “Il ladro di Bagdad” con Sabù – “Il mare d’erba” con Spencer Tracy – “Il buio oltre la siepe” – “Totò cerca casa” – “Riso amaro” con Silvana Mangano – “Roma città aperta” – “Il ladro di biciclette” – “La carica dei seicento” – “L’arciere di fuoco” – “Il mio corpo ti scalderà” – “Io ti salverò” e altri di cui si favoleggiavano le gesta e si esaltava la bravura artistica degli attori. Zi’ Fiuccio, quando era cattivo tempo e quindi non era in strada a fare la corte alla ‘mbuttunata, lo si poteva trovare spesso nel casotto del ciabattino.

Il triste giorno in cui corse voce che ‘a ‘mbuttunata era improvvisamente morta, Zi Fiuccio si recò nel casotto di zi’ Aniello per avere un po’ di consolazione alla sua malinconia. Chiese se era il caso di mandare un cuscino di fiori da deporre sulla bara al funerale. Zi’ Aniello espresse il parere che certo, un amore così lungo e intenso poteva ben giustificare un tale amorevole gesto. Zi’ Fiuccio però era perplesso e si chiedeva: “Sì, ma che cosa faccio scrivere sulla fascia del cuscino, “Il tuo amore” oppure “Non ti scorderò mai, Rafiluccio tuo” oppure soltanto il nome e cognome?

No, rispose zi’ Aniello, tu scrivici semplicemente “Avviati che io mo vengo”.

Embe’, si sa: zi’ Aniello aveva un cuore da scarparo e gli scarpari avevano la cinica battuta al veleno pronta sulla punta della lingua, a quei tempi.

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Giancarlo De Martino

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All’anagrafe era registrato come Giancarlo De Martino.

Se fosse nato a nord, gli amici, parlando di lui assente, lo avrebbero nominato “il Giànca”. A Roma e nei dintorni “er Giànca”. Sempre a Roma, a chiamarlo direttamente, “aho, ‘a Giancà”. Siccome era nato nella provincia di Napoli, lo chiamavano Sciulù, direttamente e indirettamente.

Eh sì, c’è da domandarsi come era venuto fuori da Giancarlo questo strano soprannome.

«Dov’è Sciulù? Avete visto Sciulù?»

«Andiamo tutti a casa di Sciulù.

«Neh, Sciulù. E muovete!

Non era venuto fuori da Giancarlo. Si sa, il napoletano è fantasioso e forse gli sarebbe parso banale e privo di inventiva ridurre Giancarlo a Gianca’. Chi fosse stato il primo a chiamarlo così, non si sa; ma dovette pensare che gli calzasse a pennello quel nomignolo.

Il fatto è che Giancarlo De Martino aveva spesso modi e atteggiamenti un po’ leziosi, come dire… effeminati.

«No, no! Chillo è proprio ricchione!» aveva asserito perentorio Cirotto Sorrentino. «E perciò qualcuno lo ha chiamato Sciulù. E io so pure chi gli ha messo questo nome». Era una di quelle malelingue…

Il coniatore del nomignolo era sconosciuto a tutti, ma il Sorrentino aveva affermato una volta, che, chi glielo aveva messo, era stato un di lui amico pederasta. E siccome Cirotto amava fare sfoggio di cultura, aveva continuato: «Pederasta, pederasta! Viene dal latino: petere hastam, che significa chiedere l’asta, desiderare l’asta. Insomma, uno ca le piace ‘a mazza. Come a Sciulù».

Pietro Sansone, che per la sua stazza fisica, faceva onore al suo cognome, ogni volta che si parlava male di Giancarlo in tali termini, gli si ergeva a difensore.

«Ma statte zitto! Ma che ne sai tu? Ti ha fatto mai qualche proposta del tipo…»

«Sì, quello, poi, la proposta gliela andava a fare proprio a Cirotto, racchio e fascistone com’è. Avrebbe rischiato di finire al confino, il povero Sciulù. A fare le pippe ai mufloni in Sardegna», sbottava Sandro Grieco, però quando Cirotto se ne era andato e sempre che non fossero presenti né Giancarlo,  né Pietro.

A tutti era sembrato, questo soprannome Sciulù, confacente alla personalità, all’aspetto fisico e a certe movenze femminee di Giancarlo De Martino. Era un biondino, di un biondo leggermente slavato, occhi più verso il verde che l’azzurro, nasino all’insù. Alto un po’ più della media, ma non si poteva definire uno spilungone. Di tanto in tanto gli veniva fuori una di quelle mossette, equivoche, per uno che all’anagrafe risultava di sesso maschile. Ci si aggiungeva pure un po’ di erre moscia. Amante della poesia e dei canti melodici. Un romanticone o, come diceva Cirotto, una puttanella piagnona. Questi, taurino e virile com’era, amava le canzoni sul tipo “All’armi, all’armi, siam fascisti” e “Giovinezza, giovinezza…”,

Sciulù usciva pazzo per i fiori. A casa sua non si poteva respirare per il profumo. Ma non li comprava. I fiori glieli regalava spesso proprio Pietro Sansone, vivaista e floricultore, amico per la pelle di Giancarlo De Martino. Amicizia del tutto disinteressata. Non gli importava niente delle tendenze sessuali di Sciulù, non l’aveva mai chiamato così e non aveva mai tentato di appurare se fosse vero quello che di lui si andava dicendo. Strana amicizia.

«Vedrai che, prima o poi finirà in qualche sperduto paesino nel Molise. Al confino te lo mando quel fru fru! Vedrai.» bofonchiava Cirotto Sorrentino, guardandosi bene, però, dal minacciare la condanna in presenza di uno dei due in questione.

Poiché il fratello Benito aveva partecipato alla marcia su Roma, e lui stesso aspirava al titolo di capomanipolo della Milizia, Cirotto si sentiva investito del compito di ripulire il paese dagli smidollati e dagli omosessuali in particolare. E Sciulù, per lui, era degli uni e degli altri. Si aggiunga che il padre, Amilcare De Martino, sembra avesse rifiutato la tessera del Partito ed era considerato perciò socialista, e si spiega perché il Cirotto ce l’avesse tanto con Giancarlo De Martino, detto Sciulù.

Ma Sciulù come reagiva quando lo chiamavano così?

Niente.

E già. Niente. Perché sapeva il fatto suo. Giancarlo non era ricchione, anzi. Tutt’altro. E si riprometteva di darne prova, una prova eclatante, a tempo debito.

Di ciò che si riprometteva Giancarlo De Martino doveva fare le spese proprio Cirotto Sorrentino e, più direttamente, la di lui sorella Maddalena.

«Chi è stato? Dimmi chi è stato, che mi vado a mangiare il cuore!» urlava Cirotto, fremente, con la bava che gli usciva dalla bocca.

La sorella, muta.

«Gli do ventiquattr’ore per riparare, poi lo impicco al palo della luce dopo avergli fatto ingoiare questa baionetta» decretava Benito, apparentemente meno esagitato e più pratico del fratello.

«Avanti, Matalè. Dicci chi è stato!»

La ragazza fingeva di non voler confessare il nome del malfattore, ma, in cuor suo, non vedeva l’ora di farlo. Era sicura che Cirotto non gli avrebbe mangiato il cuore e Benito non avrebbe impiccato nessuno, ma tutti e due avrebbero messo Giancarlo De Martino di fronte alle sue responsabilità e costretto a riparare in tutta fretta.

Già, perché era stato proprio:

«Giancarlo».

Maddalena, stanca di fingere di soffrire, pronunciò quel nome.

«Chi?» scoppiarono all’unisono i due fratelli.

«Giancarlo. Giancarlo De Martino. Proprio lui.»

«Ah!» disse Benito e prese a torturarsi il pizzetto. Fece un paio di volte la stanza avanti e indietro. Impiegò poco a decidere.

«Bene! Vado a sentire quando intende fissare la data per le nozze».

Uscì con passo deciso, baionetta nel fodero che gli batteva sull’anca, manganello saldo nella mano. Quanto gli bastava per essere convincente, se ce ne fosse stato bisogno.

Era o non era un avanguardista?

Cirotto Sorrentino invece era rimasto… come dire? basito? di stucco? di sasso? Qualcuno direbbe, meno elegantemente, ma in modo più aderente alla realtà, di merda. Ebbe bisogno di qualche manciata abbondante di secondi per riprendere a respirare. Non si capiva se, dopo i reiterati strabuzzamenti di occhi, avrebbe deciso di svenire o di dare fuori in un urlo lacerante.

Tutto quello che riuscì a fare, però, fu di ripetere in un suono soffocato:

«Chii?».

«Te l’ho detto. Quante volte lo devo dire?»

Partì la mano di Cirotto col compito di colpire il viso di quella puttanella, sorella e buona. Il viso, però, non si fece trovare sul luogo dell’appuntamento e la mano finì la sua corsa nel vuoto. Vogliamo dire che Cirotto ci mise anche del suo per far fallire il compito alla mano? Diciamolo, perché è vero: in fondo era bravo nel violentare solo a parole e per questo, forse, non era divenuto ancora capomanipolo della Milizia. Perciò, ritrovata la voce, urlò:

« E voglio sentirlo di nuovoo!».

«Giancarlo De Martino» ripetè sillabando la sorella, con intonazione intesa ad indispettire. Ma, più che indispettito, Cirotto fu ancora una volta sommerso da incredula disperazione.

«Ma chi, Sciulù, quel ricchione?».

«Ricchione?». Maddalena si risentì come se le avessero offeso un marito che le avesse fatto fare otto figli.

«Ma che ricchione e ricchione! Quello ci ha due palle e un coso che da soli possono scatenare il terremoto di Casamicciola».

Ben presto si seppe in giro che di questo medesimo parere erano pure Ofelia Cantatore nipote del podestà, la moglie del farmacista, la cugina di Pietro Sansone – neanche quella aveva risparmiato in nome dell’amicizia – ed un’altra dozzina e più di donzelle, zitelle, mogli e vedove del paese.

Quello che non si fa, non si sa.

«Ma tu guarda un po’. Per avere fortuna con le donne, bisogna farsi passare per ricchione pederasta». Così aveva dovuto concludere Cirotto Sorrentino. Lui con le donne era andato sempre in bianco, tranne che con quelle del casino 13 dei Quartieri Spagnoli di Napoli. Una volta ogni quindicina: di più le sue tasche non gli consentivano. E non aveva poi tutti i torti.

Con quel suo modo di essere effeminato, i suoi occhi tra il verde e il celeste, la sua erre moscia e tutto il resto che s’è detto, Giancarlo De Martino detto Sciulù, sapeva risvegliare nelle donne un intenso senso materno, una voglia di mangiarselo di baci, di stringerlo al seno con passione, un desiderio vorace di offrirgli tutti i più caldi e protettivi ricetti di cui dispone un corpo di donna.

Benito lo cercò a lungo per tutto il paese. Anche il podestà, più di un marito, il farmacista, Pietro Sansone e un nutrito manipolo di cornuti – possessori di corna di varia dimensione, lunghe e robuste a seconda del grado di parentela che li legava alle terremotate – lo cercarono affannosamente per giorni e giorni. A nessuno di essi Giancarlo De Martino diede la soddisfazione di lavare l’onta col sangue. Nessuno seppe che si era sottratto appena in tempo alla baionetta di Benito confinandosi nel Molise, in una sperduta frazione di Moliterno, da una vecchia zia  rincoglionita, zia Caterina.

Al confino sì, ma volontario.

Tanto volontario, invece, non fu l’espatrio in America dell’intera famiglia De Martino, qualche mese dopo la scomparsa di Giancarlo. Le angherie che il podestà, i notabili e i cornuti del paese esercitavano sistematicamente contro i membri di essa, divenivano ogni giorno più insopportabili.

La zia Caterina, da quando il figlio Salvatore era partito per la Spagna, a combattere per gli ideali fascisti del caudillo Franco, e non se ne era saputo più nulla, aveva perso il ben dell’intelletto e la favella. Appena vide Giancarlo, si limitò a riacquistare questo secondo bene, mai più il primo.

«Madonna mia, ti ringrazio! Peppì, guarda! È tornato Salvatore!»

Lo zio Peppino, un po’ meno rincoglionito della moglie, ma molto incazzato alla notizia che Caterina aveva riacquistato la parola e, per conseguenza, lui aveva riperso la pace, a vederlo, s’era domandato:

«Ma proprio qui doveva capitare ‘stu ricchione?»

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I capponi di Renzo

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Renzo, venuto a sapere del perché don Abbondio non lo ha voluto sposare con Lucia, dietro consiglio di Agnese, si reca dal dottor Azzeccagarbugli per sapere come avere giustizia in tal frangente. E da personaggi del calibro del dottor Azzeccagarbugli non ci si può recare a mani vuote.

(…) e Agnese, superba d’averlo dato (il consiglio di consultare l’avvocato Azzegarbugli), levò, a una a una, le povere bestie dalla stìa (quattro capponi), riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo (…)

Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavano a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro di fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura.

In questo breve brano, il Manzoni ha disegnato metaforicamente la condizione umana sulla Terra: noi capponi capitati su questo “atomo opaco del male” neppure sappiamo come e perché, invece di ingegnarci tutti a vivere nel miglior modo possibile, aiutandoci l’uno con l’altro, come quei compagni di sventura che siamo tutti, invece di cercare insieme di far fronte alle “fiere scosse” che il caso o il destino o chi per esso ci dà, continuiamo a beccarci a vicenda fin dai primordi della vita umana. La stupidità dell’uomo a livello di quella di quattro capponi!

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